giovedì 10 settembre 2015

LA CANZONE DEL SANGUE SALMONATO




Mi portano il nuovo giallo di Giovanni Ricciardi, "La canzone del sangue".
L'editore è Fazi, eccellente editore.
L'autore, Ricciardi, mi dicono che lo conosco, ma ho difficoltà a ricordare. Comunque da tempo  avevo intenzione di leggerlo, e una storia è una storia, anche se non ricordo la faccia di chi l'ha  scritta. La storia esiste anche senza l'autore.  
O forse no.

Il romanzo parte sparato con una citazione della famosa canzone "Vitti na crozza..." e prosegue   bene. A fine libro sarò contento di aver finalmente capito quei versi ipnotici che più volte mi avevano  catturato, ma non ero mai riuscito a decodificare, sempre restando con un disagio più o meno latente. La testa sopra il cannone mi è sempre sembrata incongrua. Eppure doveva avere un significato.  

Il racconto scorre bene, senza troppi dettagli folcloristici.
Ricciardi sa scrivere, il plot c'è, e anche  qualche pezzo di bravura, come quando l'amico dell'investigatore spiega il (suo) significato di  quella frase del "Padre nostro": "non ci indurre in tentazione".  

Eppure la storia introduce anche i suoi elementi che mi sconcertano, mi appaiono incongrui.
 Perchè uno dei personaggi è Montalbano? Montalban è un altro scrittore di gialli, apprezzato da  Camilleri, ma che c'entra qui?
Perchè uno dei personaggi si chiama Jorge, in modo analogo a "Il nome della rosa?"
Perchè il commissario Pozzetti parla di se stesso come un personaggio di carta?
Forse l'autore sta sovraccaricando il testo.  
O forse voleva proprio fare un giallo salmonato.

Conviene risalire a Wu Ming ed al suo testo "L’incontro tra il salmone e gli asparagi sul tavolo del narratologo".  
Cito:

Il libro Storytelling di Christian Salmon, improvvisamente e improvvidamente à la page, stava imponendo un approccio semplicistico ... Salmon descriveva un grande e maligno complotto finalizzato a imporre un Nuovo Ordine Narrativo ... per mezzo di un’arma di distrazione di massa chiamata – appunto – storytelling. In inglese il vocabolo non designa altro che l’atto basilare e primevo di raccontare storie, ma nella neolingua salmoniana si zavorrava di connotazioni sinistre: raccontare equivaleva tout court a ingannare, abbindolare, irretire, manipolare; le storie erano strumenti del dominio capitalistico in mano a pubblicitari e markettari; lo storytelling era il male.



 ...

Non c’è mai stata un’età del mondo in cui la comunicazione fosse sganciata dal racconto e dalle mitologie depositate nel linguaggio. La narrazione non occupa un campo specifico (di mero intrattenimento), e non esiste un discorso logico-razionale “puro”.

 ...



Per Salmon, invece, il capitalismo aveva imposto andamenti e schemi narrativi a porzioni di realtà in precedenza esterne alle narrazioni (?), finendo per «inflazionare» e corrompere irreparabilmente l’atto di raccontare. Atto che andava – non si capiva bene come – disertato.

...



L’indignazione contro lo storytelling, insomma, fornì ad alcuni nostri colleghi l’ennesima occasione di navigarsi l’ombelico. L’onta esibita e la sfiducia affettata, preincanalate nei varchi di un certo postmodernismo stagionato, diedero luogo a metanarrazioni. Lo scrittore raccontava della propria sfiducia nei confronti del raccontare: «Mi piacerebbe scrivere un romanzo, ma il romanzo è un’arma del potere, e allora scrivo sì un romanzo, ma ogni due pagine mi intrometto per ribadire che il romanzo è un’arma del potere e nemmeno questo sfugge… Anzi, un po’ sfugge, perché proprio grazie a queste mie intromissioni non è davvero un romanzo ma un romanzo che si nega come tale etc. etc.»

...  



Tutto questo per inseguire quella che Salmon, vagamente e senza fornire alcun ragguaglio, chiamava «contronarrazione». Si capiva soltanto che doveva tendere allo «sfuocare» lo sguardo del narratore, per «sfumare» la potenza seduttiva delle storie. Tante pagine di sacro furore per concludere che il vino annacquato ubriaca di meno.  

Ritornando al giallo di Ricciardi vedo tutti i segni della sindrome malefica individuata da Wu Ming, l'autore si intromette in continuazione per far capire che conosce gli effetti corruttori della narrazione.  

Personalmente preferivo Manzoni, il quale nei "Promessi sposi" non solo non si intrometteva, ma faceva di tutto per allontanarsi dal testo tramite un altro autore fittizio. Operazione replicata da Eco, il quale fa scrivere "il nome della rosa" ad Adso da Melk.

Ma forse Ricciardi non li conosce.