di Stefano D'Andrea
Appello al Popolo
Nel seguito i primi dodici paragrafi (la prima parte) del
Documento di analisi e proposte dell'Associazione Riconquistare la Sovranità.
L'associazione è stata costituita il 21 marzo da trentacinque soci, tra
i quali il sottoscritto. Il Documento è parte integrante dell'atto
costitutivo dell'Associazione, la quale ha come scopo sociale quello di
diffondere, in rete e attraverso la promozione di assemblee cittadine,
le analisi e le proposte contenute nel Documento (Stefano D'Andrea).
Dal
Documento di Analisi e proposte dell'Associazione Riconquistare la Sovranità:
§ 1 Premessa;
§ 2 L'insanabile contrasto tra Costituzione della Repubblica Italiana e Trattati dell'Unione Europea;
§ 3 L'errore politico e tecnico dell'euro;
§ 4 Scuola e Università;
§ 5 Sanità;
§ 6 Agricoltura;
§ 7 I settori industriali strategici;
§ 8 Riformare le controriforme attuate nell'ultimo ventennio da una classe dirigente esterofila e in preda alla depressione;
§9 L'ìtalia deve tornare ad essere una nazione pacifica;
§10 La deriva della nazione;
§11 Il commissariamento politico dell'Italia e la seconda morte della patria;
§12 La depressione economica.
1. Premessa
La parte più nobile e moderna della Costituzione della Repubblica
Italiana è costituita dal titolo dedicato ai “rapporti economici” (artt.
35-47). Essa, da almeno due decenni, è totalmente disapplicata, in
ragione della prevalenza dei Trattati dell’Unione Europea e del diritto
derivato (emanato dagli organi dell’Unione) sulle norme costituzionali
volte a disciplinare la materia economica. Una congiuntura
internazionale favorevole, un lungo periodo di bassi tassi di interesse,
la promozione dell’indebitamento privato, che ha supplito per molto
tempo la diminuzione dei salari e dei redditi da lavoro tutti, e la
diffusione della ideologia globalista, mercatista, transnazionale,
idolatra della concorrenza e individualista hanno oscurato a lungo, agli
occhi del popolo italiano, questo dato di fondamentale rilevanza. Oggi
siamo giunti al tempo della verità e alla necessità di invertire la
rotta.
I principi fondamentali dell’Unione Europea non sono in grado di far
uscire l’Italia dalla crisi economica, bensì spingono verso
l’aggravamento e generano un difetto di coesione sociale e territoriale
che sta minando l’Unità della Nazione e impoverendo larghi strati della
popolazione.
2. L’insanabile contrasto tra Costituzione della Repubblica Italiana e Trattati dell’Unione Europea.
Il modello di disciplina dei rapporti economici prefigurato dai Trattati
Europei è irrimediabilmente in contrasto con il modello di disciplina
prefigurato nella Costituzione. I valori e gli interessi promossi dalla
Costituzione della Repubblica Italiana sono opposti rispetto ai valori e
agli interessi promossi dai Trattati dell’Unione Europea. In
Particolare:
-
“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” ,
“aiuta la piccola e media proprietà”,
“provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”
(artt. 37, 45), mentre l’Unione Europea: impone la deflazione salariale
e la precarietà, come unico strumento per aumentare la produttività e
reggere la competizione internazionale; spinge verso le liberalizzazioni
a vantaggio del grande capitale, libero ormai di valorizzarsi anche nel
campo delle professioni un tempo protette, anche là dove non vi è alcun
odioso privilegio da estirpare; schiaccia gli agricoltori rendendo
difficile o impossibile la libera organizzazione della loro attività,
nell’interesse della grande distribuzione e dell’industria
agroalimentare; costringe i commercianti a soggiacere al capitale
marchio (in particolare tramite il contratto di franchising e in genere
la valorizzazione dei marchi) e penalizza i piccoli esercizi
commerciali, consentendo l’apertura anche nel tradizionale giorno di
riposo.
-
“La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme” (art. 47, primo comma), mentre l’Unione Europea incoraggia l’indebitamento privato per l’acquisto di beni e servizi di consumo.
- La Repubblica
“tutela il risparmio”, ossia lo preserva
dall’inflazione. Mentre l’Unione Europea promuove le rendite – ossia la
valorizzazione del denaro risparmiato senza che il risparmio sia
investito, anche indirettamente, nella produzione di beni e servizi - e
le plusvalenze derivate da scommesse finanziarie. Questo obiettivo è
perseguito dall’Unione Europea sia direttamente, attraverso una ipocrita
disciplina di tutela del cliente-investitore, sia indirettamente,
vietando limitazioni alla libera circolazione dei capitali e quindi
impedendo di tassare adeguatamente i proventi derivanti da plusvalenze,
rendite e scommesse: in caso di elevamento dell’imposizione da parte di
uno degli stati membri, i capitali fuggirebbero.
-
“La Repubblica favorisce l’accesso del risparmio popolare… al
diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi
produttivi del paese” (art. 47, secondo comma), mentre l’Unione
Europea impedisce all’Italia ogni vincolo di destinazione del risparmio
degli italiani, sancendo la assoluta libertà di circolazione dei
capitali, anche nei confronti dei paesi terzi, e garantendo il “diritto”
dei risparmiatori, per lo più attraverso i grandi intermediari
finanziari, di indirizzare il risparmio in ogni piazza finanziaria, alla
ricerca della maggiore rendita e delle più attraenti scommesse.
-
“La Repubblica… disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”,
mentre l’Unione Europea ha imposto una disciplina del credito,
attuativa di direttive comunitarie, che ha sancito l’abbandono dei
tradizionali principi italiani, con il vincolo per l’Italia di non poter
reintrodurre gli antichi principi.
- La Costituzione ammette, in presenza di determinate condizioni,
monopoli pubblici o collettivi, sia originari, sia derivanti da
espropriazioni con indennizzo (art. 43). L’Unione europea promuove la
concorrenza in ogni campo dell’attività economica e impedisce all’Italia
di introdurre monopoli anche in alcuni dei casi previsti dalla
Costituzione.
- La Costituzione italiana non vieta e quindi ammette il ricorso al
protezionismo e anzi promuove limitazioni della libertà di circolazione
dei capitali (art. 47, secondo comma:
“La Repubblica… Favorisce
l’accesso del risparmio popolare… al diretto ed indiretto investimento
azionario nei grandi complessi produttivi del paese”). Al contrario, l’Unione Europea, per un verso, instaura un
“mercato aperto”,
che impone la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei
capitali, anche nei confronti dei paesi terzi, privando gli stati della
politica doganale anche nei confronti dei paesi estranei all’Unione
europea; per altro verso, vieta gli aiuti di Stato. Ciò significa, per
recare soltanto un esempio, che l’Italia, preso atto dell’elevato numero
di computer, di telefonini e di televisori acquistati dagli italiani,
non potrà mai destinare ingenti somme a imprese pubbliche o partecipate
dallo Stato, che producano quei beni, inizialmente soprattutto per il
mercato italiano, grazie a norme che garantiscano a quelle imprese quote
di mercato, e che occupino i laureati italiani in informatica e in
ingegneria, nonché i tecnici e gli operai del settore.
- La Costituzione Italiana promuove la piena occupazione (art. 4, primo
comma) e quindi salari dignitosi, ammettendo, a tal fine, un’inflazione
modesta o relativamente modesta. L’unione europea impone un’inflazione
bassissima, impedisce la piena occupazione e promuove la deflazione
salariale.
- La Costituzione non pone limiti al debito pubblico e al deficit
pubblico e consente allo Stato di prevedere che i titoli invenduti siano
acquistati dalla banca d’Italia. L’Unione Europea prevede precisi
limiti al debito pubblico e al deficit, impedisce alla BCE e alle banche
centrali nazionali di acquistare titoli del debito pubblico e vuole
imporci l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione.
- In generale, l’Unione europea abbatte i confini degli stati europei,
anche nei confronti dei paesi terzi e crea un mercato aperto nel quale
deve vincere la logica del più forte. Al contrario, l’art. 41, terzo
comma della Costituzione prevede che
“La legge determina i programmi e
i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. L’Unione
europea sopprime tutti i possibili poteri degli stati e quindi dei
popoli di disciplinare l’economia, affidando il sistema economico alla
pura concorrenza tra imprese e gestori dei grandi capitali
internazionali. Mentre la Costituzione sancisce che il popolo italiano,
attraverso lo stato italiano, disciplini l’economia.
I due programmi politico-economici sono in irrimediabile contrasto. O il
Parlamento e il Governo italiani applicano l’uno o applicano l’altro. E
in ragione del prevalere (nelle materie economiche) del diritto
dell’Unione Europea sul diritto interno italiano (opinione
giuridicamente infondata che, tuttavia, è un fatto), anche di rango
costituzionale, sono ormai più di venti anni che Parlamento e Governo
italiani svolgono il diritto europeo, anziché il diritto costituzionale
dei rapporti economici. Quindi,
“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi”
(art. 54), salvo i membri del Governo e del Parlamento, che devono
osservare il diritto europeo e violare sistematicamente il diritto
dell’economia di rango costituzionale!
3. L’errore politico e tecnico dell’euro.
L’unione europea ha sottratto allo stato italiano anche il potere di
gestire una moneta nazionale, vincolandolo a una moneta comune che non è
di nessuno. L’adozione della moneta unica si è rivelata, oltre che un
errore politico un grave errore tecnico.
Gli architetti politici che si sono occupati della costruzione dell'euro
hanno scelto di non tener conto delle preoccupazioni espresse da vari
esponenti della scienza economica.
Non sono pochi gli esperti che avevano rilevato per tempo come una
unione monetaria fra Paesi molto diversi rispetto ad importanti
parametri economici (come competitività e tassi di inflazione) avrebbe
comportato numerosi squilibri, che sarebbero poi esplosi nei momenti di
crisi. Questo è ciò che è puntualmente avvenuto. Nei circa dieci anni
passati dall'avvento della moneta unica, i paesi PIGS hanno avuto
livelli di inflazione significativamente più elevati di quelli della
Germania, e di conseguenza hanno perso competitività, finendo per
accumulare pesanti deficit commerciali, non a caso nei confronti della
stessa Germania.
E' questa la ragione principale della crisi di fiducia che i mercati
esprimono nei confronti dell'eurozona. I Paesi meno competitivi rispetto
alla Germania vedono peggiorare continuamente la loro situazione
economica, senza poter reagire con lo strumento della svalutazione della
moneta nazionale (che non hanno più), e sono quindi considerati a
rischio default.
La crisi di fiducia impone ai Paesi meno competitivi di aumentare gli
interessi sui titoli del debito pubblico, al fine di riuscire a
collocarli sul mercato: ma dover corrispondere maggiori interessi rende
sempre più difficile recuperare le risorse necessarie per pagarli, e per
ripagare i titoli in scadenza.
Il tutto si traduce in ulteriore aumento del rischio di default.
È ormai comunemente accettata l'idea che per salvare l'Euro è necessario
ridurre il gap di competitività fra i paesi dell'eurozona, allineandosi
alla Germania. Non potendo svalutare la propria moneta, per recuperare
competitività i Paesi con le economie più deboli devono necessariamente
ripetere quello che i tedeschi hanno già fatto nel decennio passato:
aumentare la produttività e contemporaneamente abbassare i salari reali.
Tali misure, che comportano costi sociali altissimi, non possono
determinare gli stessi effetti sulla crescita che hanno prodotto in
Germania, ma solo contribuire ad avvitare i Paesi dell'eurozona in
spirali recessive senza uscita, alimentate anche dai tagli alla spesa
pubblica imposti dall'Unione Europea.
L'unico risultato possibile è la recessione, e anzi la depressione,
entro al quale avverrà un forte impoverimento generale dei ceti medi e
popolari, assieme al depauperamento dei servizi pubblici (istruzione,
sanità, trasporti). Tutte le drammatiche misure di austerità imposte
dall’Unione uropea e dalla BCE per salvare l'Euro non raggiungeranno il
loro scopo. Primo o dopo l'Euro salterà. Ma il rischio è che ciò avvenga
solo dopo aver messo letteralmente in ginocchio le economie e i tessuti
sociali dei Paesi dell'eurozona o almeno dei Paesi del sud europa. A
quel punto sarà durissimo sostenere gli effetti del crollo della moneta
unica.
Nel frattempo, per poter imporre quanto deciso dalla BCE e dalla
Commissione Europea (cioè da Francia e Germania), l'Unione Europea
inasprisce il proprio carattere antidemocratico, tramite nuovi trattati
che obbligano i Paesi membri a realizzare tutto ciò che viene deciso dai
tecnocrati europei, indipendentemente dalla volontà popolare e dalle
determinazioni dei Parlamenti nazionali.
Euro ed Unione Europea sono quindi i primi nemici da abbattere per
chiunque voglia difendere le condizioni di vita dei ceti popolari e
medi, la sovranità popolare, la democrazia politica.
4. Scuola e Università
È in atto da molto tempo un lento processo di distruzione della Scuola e
dell'Università pubbliche. Le continue riforme che si succedono, ad
ogni cambio di ministro, non fanno che portare avanti questa
distruzione. Nella Scuola pubblica viene in sostanza cancellata la
centralità delle discipline e dei contenuti, che sono la vera sostanza
sulla quale si basa il processo educativo specificamente scolastico.
Questa perdita di contenuti disciplinari riduce il lavoro scolastico ad
una sorta di immane servizio di “babysitteraggio”, con la perdita di
ogni reale valore educativo del tempo passato sui banchi. Le varie
riforme, inoltre, colpiscono al cuore il carattere di scuola nazionale,
uguale per tutti i cittadini, della scuola pubblica, prevedendo una
sciagurata autonomia che significa soltanto trasformazione della scuola
in azienda privata (anche se formalmente pubblica) che va a caccia di
clienti sul Mercato. Analogo destino colpisce l'Università, i cui gravi
problemi non vengono risolti ma accentuati dalle varie “riforme”
succedutesi negli anni.
La fine della Scuola e dell'Università pubbliche, statali, nazionali, è
una perdita gravissima per la possibilità stessa di continuare a pensare
il nostro paese come una patria comune. La Scuola pubblica e
l’Università pubblica devono tornare ad essere il principale strumento
di promozione della mobilità sociale. Se oggi la mobilità sociale in
Italia è bassissima, ciò è dovuto anche alla distruzione della Scuola e
dell'Università pubbliche statali. È difficile contrastare questi
fenomeni, perché essi derivano da meccanismi culturali profondi del
nostro mondo. Per provare almeno a combatterli il recupero della
sovranità nazionale e il distacco dalla “cultura” diffusa dal pensiero
globalista e mercatista sono condizioni necessarie.
5. Sanità
In aderenza alle pulsioni e credenze del pubblico in tema di salute,
opportunamente stimolate e pilotate, la medicina, alla quale ci si
affida come un tempo alla religione, è stata trasformata in uno dei
maggiori settori dell’imprenditoria liberista; un settore parassitario
dove la Domanda è facilmente regolata da un’Offerta senza scrupoli, e
sul quale si è sovrapposta l’economia fittizia della speculazione
finanziaria.
Noti economisti auspicano che la quota sanità del PIL salga al di sopra
del 15%; ciò è ottenibile, ma sarebbe una disgrazia, perché già oggi per
far diventare la medicina un motore di crescita economica la si è
gravemente inquinata con deviazioni e con pratiche fraudolente; così che
essa non fornisce ciò che potrebbe dare mentre storna risorse e crea
danni iatrogeni. Ad esempio, la “prevenzione” oggi non consiste
nell’assicurare un ambiente salubre, condizioni di vita equilibrate e
cibi genuini, alla luce delle conoscenze biomediche; ma in trattamenti
medici di massa ai sani mediante costosi programmi di screening,
l’inutilità e la dannosità dei quali sta venendo riconosciuta in diversi
casi anche in sedi ufficiali. Si favorisce la cronicizzazione delle
malattie, per trasformarle in rendite assicurando il maggior consumo di
costose scatolette di farmaci proclamati efficaci, e si lascia alle
famiglie la gran parte di carichi sanitari essenziali come le cure
odontoiatriche e l’assistenza ai non autosufficienti. E’ anche possibile
che, ridotta la democrazia reale al lumicino, i futuri sviluppi, che
potrebbero includere una maggiore privatizzazione della sanità, si
avvalgano di forme più tradizionali di autoritarismo, per giungere allo
“Stato terapeutico” preconizzato da alcuni commentatori. I meccanismi
coi quali il potere ottiene ciò sono oscurati da fattori psicologici e
tecnici, potenziati dalla propaganda e dalla censura; ma gli effetti
negativi sono percepiti da una quota crescente di cittadinanza.
Le forze liberiste nel perseguire lo sfruttamento della medicina si sono
poste il problema di geometria istituzionale: “volendo impossessarci
del governo della medicina, come massimizzare la sua distanza dai due
centri naturali di controllo democratico, lo Stato e il territorio ?”.
Lo hanno risolto ottenendo dai politici la sovraordinazione della UE
allo Stato e la devoluzione della sanità alle Regioni. La UE considera
apertamente la medicina come un settore economico strategico, la cui
tutela consente deroghe ai diritti fondamentali; spodesta un governo
centrale occupato da politici “cùpidi di servilismo”. Le Regioni,
ricettacolo di corrotti, traducono in interventi legislativi e
amministrativi gli interessi dei poteri forti della sanità a livello
locale. Anche se da solo non è sufficiente, e il servizio pubblico non
sempre è superiore all’iniziativa privata, è necessario che sia lo Stato
nazionale, al servizio razionale delle necessità e richieste delle
realtà locali, a controllare la medicina. Ciò renderà possibile
l’intervento più urgente, quello di emancipare i cittadini dalla loro
condizione di stampo del potere mediante una corretta informazione;
sollecitando in loro il meglio, anziché il peggio come fa la dittatura a
stampo; in modo che sappiano ciò che devono pretendere dalla sanità e
ciò che non possono chiederle.
6. Agricoltura
L’Unione Europea con la Politica Agricola Comune (PAC) degli ultimi
decenni ha determinato un netto decremento della produzione agricola
italiana, attraverso l’introduzione di aiuti finanziari legati
esclusivamente alla proprietà del terreno ed incuranti dell’effettivo
contributo produttivo. Inducendo così alcuni agricoltori a lasciare
incolti i loro terreni per vivere di rendita o a modificarne la
vocazione a fini esclusivamente ambientali, ricreativi o energetici. Ciò
si è drammaticamente riflesso in negativo sulla bilancia commerciale
italiana. Generando un potente flusso di materie prime agricole
dall’estero che hanno ulteriormente indebolito l’agricoltura italiana e
l’economia nazionale tutta. Inoltre, i processi di globalizzazione in
atto, insieme al dirigismo tecnocratico della U.E., realizzato ad uso e
consumo delle aziende che operano con economie di scala, stanno
ulteriormente riducendo il numero delle piccole e medie aziende agricole
disgregando il tessuto sociale che verte su di esse.
L’adozione di politiche protezioniste, con l’adozione di dazi e tariffe,
in tutti quei casi in cui l’agricoltura nazionale risulti aggredita da
fenomeni di concorrenza da parte di paesi terzi, insostenibile da parte
dei nostri agricoltori, appare l’unica possibile soluzione per evitare
l’ulteriore aggravarsi della crisi in atto.
Infine il ripristino di una politica agricola nazionale in luogo di
quelle attuali euro-centriche ed il recupero di una moneta nazionale con
cambio monetario gestibile in funzione delle necessità economiche
appaiono sempre più una impellente necessità, al fine di garantire la
sopravvivenza ed il rilancio dell’intero comparto agricolo.
7. I settori industriali strategici
In un’ottica integralmente liberale, opposta, quindi, all'ottica che qui
assumiamo, la nozione di settore strategico è di per sé vuota di
contenuti ex-ante, essendo il mercato il solo ed unico giudice
ammissibile (
ex-post) delle decisioni produttive prese in modo
indipendente dagli operatori privati sulla base della semplice
convenienza valutata dal singolo. Non vi è alcuno spazio, in questa
prospettiva, per giudizi generali e aprioristici circa la preferenza di
una scelta produttiva rispetto ad un'altra.
Ponendoci invece in un'ottica opposta, di sovranità almeno parziale
sulle scelte produttive, la nozione di strategicità diviene di estrema
importanza.
Un settore strategico può essere considerato tale per una serie di
ragioni che contribuiscono a dare al termine strategicità diverse
accezioni che contribuiscono ad una definizione complessiva. Quattro
sono le aree che ci riconducono alla strategicità:
A) Un settore è strategico anzitutto:
1- perché si occupa della produzione di un bene di consumo o un servizio
primario per i bisogni della popolazione (è il caso di alcuni prodotti
alimentari di base, dell'elettricità, dei combustibili, dell'edilizia
abitativa, della sanità, dei farmaci, ma si può anche allargare il campo
a molti altri servizi o prodotti)
2- perché si occupa della produzione di un bene o servizio di
investimento legato direttamente alla produzione di beni di consumo
considerati primari (un macchinario sanitario, la ricerca farmaceutica
etc etc).
3- perché produce un bene o un servizio senza l'uso del quale, una parte
considerevole di tutte le altre produzioni e attività economiche non
potrebbe neanche avvenire (è il caso ad esempio dell'energia, dei
trasporti, delle telecomunicazioni, dei sistemi informatici, della
siderurgia, della chimica etc etc)
B) Descritto il concetto più elementare di strategicità, bisogna
integrarlo con accezioni più complesse e meno immediate. Un settore è
infatti parimenti strategico se:
4- contribuisce direttamente ad una parte considerevole dell'occupazione di lavoratori nel sistema economico.
5- presuppone, per la sua stessa esistenza, la presenza di un indotto
produttivo a monte molto esteso, che fa sì che tale settore sia
inscindibilmente legato ad un enorme fetta dell'apparato produttivo in
generale e quindi ad un enorme quota parte di occupazione di lavoro
6- è legato a scelte di investimento di lungo periodo di carattere
scientifico, tecnologico e culturale, in grado di modificare nel tempo,
in maniera decisiva, lo sviluppo materiale e spirituale della società.
E' il caso della ricerca di medio-lungo periodo in tutte le sue
sfumature: da quella medica e farmaceutica, alla ricerca orientata allo
sviluppo di nuove tecnologie che consentono il risparmio energetico e di
lavoro, fino alla ricerca umanistica in tutte le sue forme.
C) La strategicità ha poi un ulteriore importantissimo contenuto che
investe anche il ruolo del paese nei rapporti internazionali:
E' strategico da questo punto di vista, un settore:
7- che per l'alta intensità di contenuto tecnologico e di investimenti,
gode di un alto valore aggiunto e quindi di un alto valore di scambio
internazionale (è il caso di tutti i settori tecnologicamente avanzati)
8- che è sottoposto, per la sua stessa natura, a vincoli geopolitici
molto forti che impongono l'esistenza di determinate relazioni tra paesi
(è il caso di tutto il settore energetico di importazione o dei
brevetti scientifici in mano ad altri paesi)
D) Infine, un'ultima importantissima accezione che contribuisce a
definire il concetto di strategicità può portare ad affermare, in un
ottica profondamente dirigistica e programmativa, che un settore è
strategico se:
9- il suo sviluppo risponde ad esigenze di orientamento del sistema
produttivo (in senso ampio) in una direzione ritenuta auspicabile da un
punto di vista etico sulla base di scelte collettive condivise. Su
questa base è strategico non solo, ovviamente, tutto il comparto
culturale, ma in via indiretta ogni tipo di produzione anche materiale
che contribuisce a definire una direzione di etica pubblica.
Queste numerose accezioni del concetto di strategicità sono tutte quante
strettamente vincolate alla questione della sovranità. Se si accetta
infatti la nozione di strategicità di un settore nelle diverse sfumature
qui sommariamente elencate, automaticamente si accetta il terreno
dell'ineludibilità della sovranità politica sui processi economici e
dell'ineludibilità di una politica industriale intesa in senso
interventista-discrezionale (e non come mero assecondamento della logica
di mercato secondo la nozione oggi ormai comune di tale concetto).
Non è infatti logicamente possibile invocare la strategicità di un ramo
della produzione economica, senza conseguentemente invocare il controllo
e la programmazione politica di tale settore (nelle diverse forme
possibili, dalla proprietà pubblica monopolistica o concorrenziale, alla
partecipazione statale, fino al semplice controllo e orientamento della
stessa produzione privata).
L'Italia, inserita nei meccanismi ultra-liberali e vincolanti dei
trattati europei, ha da oltre vent'anni rinunciato ad una politica di
orientamento e programmazione del sistema economico; ha sostanzialmente
rinunciato ad una politica industriale sovrana, in favore dei dogmi del
libero mercato e della concorrenza che impongono o il semplice “
laissez faire” oppure l'implementazione di politiche attive che assecondino e favoriscano i meccanismi del “mercato ideale”.
Un recupero della sovranità politica è condizione ineludibile per una
rinnovata programmazione economica, a partire dai settori vitali e
strategici dell'economia.
8. Riformare le controriforme attuate nell’ultimo ventennio da una classe dirigente esterofila e in preda alla depressione
Accanto alle direttive e ai vincoli giuridici provenienti dall’Unione
Europea, altre forze, di natura “culturale”, parallele e in parte
coincidenti con quelle provenienti dall’Unione Europea, sovente
riconducibili alla colonizzazione dell’immaginario degli italiani
operata dagli Stati Uniti d’America, hanno spinto, nell’ultimo
ventennio, la classe dirigente italiana a modificare molteplici settori
vitali dell’ordinamento giuridico italiano.
Tutto è stato riformato o abrogato: il sistema di distribuzione dei
poteri normativi e amministrativi tra Stato ed enti locali; il sistema
elettorale; settori dell’amministrazione statale affidati ad autorità
indipendenti (da chi?), le quali opererebbero per l’affermazione e la
tutela di asserite esigenze tecniche; l’Università; la Scuola; il
processo penale; la legge fallimentare; il diritto societario; il
diritto bancario; il diritto finanziario; le carriere amministrative; la
gestione dei servizi pubblici locali; il diritto del lavoro
subordinato; gli ordini professionali e le libere professioni; le
autorizzazioni all’esercizio del commercio; il diritto industriale; e
così via.
Gran parte della disciplina relativa all’intervento pubblico
nell’economia è stata smantellata e con essa gran parte delle imprese
pubbliche sono state privatizzate.
Tutte le riforme sono andate nella medesima direzione, suggerita o
anticipata dal diritto statunitense o imposta dal diritto dell’Unione
europea. A prescindere dal giudizio sulle singole riforme, talvolta
astrattamente apportatrici di giusti o accettabili principi (ma calati
meccanicamente in una realtà diversa da quella dalla quale sono stati
tratti), si è omesso di considerare che un ordinamento giuridico statale
è una realtà organica, che vive nella storia, realtà che, nei settori
nevralgici, va modificata con grande attenzione e prudenza.
Più riformavamo e più le cose peggioravano. Più riformavamo e più
problemi sorgevano. Più riformavamo e più diminuiva la nostra
competitività rispetto agli altri stati, non soltanto europei. Il
fenomeno non ha eguali negli altri stati europei e costituisce al tempo
stesso la ragione dell’indebolimento dell’Italia e la prova che la
classe dirigente italiana dell’ultimo ventennio (indifferentemente di
centrodestra e di centrosinistra) è stata sciagurata e sarà
irrevocabilmente condannata dal tribunale della storia. Non che gravi
cedimenti non si fossero verificati anche nel decennio precedente;
tuttavia nell'ultimo ventennio le riforme degenerative si sono
moltiplicate in misura geometrica.
Non ci ha guidato un principio nuovo ma una depressione. Se una persona
in poco tempo cambia nome, moglie, città, lavoro, sport preferito e
hobby, possiamo essere certi che essa è stata depressa. Così è avvenuto
per l’Italia, che ha “riformato” (e talvolta distrutto) moltissimi
settori nevralgici dell’ordinamento giuridico italiano.
Sebbene pseudo intellettuali, che in venti anni non ne hanno azzeccata
una, continuino a perorare “le riforme”, nel nome dell’efficienza, della
competitività, della concorrenza, dell’apertura ai mercati
internazionali, dell’adesione alle richieste dell’Unione Europea e
dell’adeguamento a istituti e prassi dei paesi “a capitalismo avanzato”,
è ormai palese, a chi non intenda bendarsi gli occhi, che l’Italia è
stata colpita al cuore proprio dalle mille riforme. E che le prime
riforme che è necessario veramente porre in essere consistono nella
sottrazione dell’Italia a quei vincoli, politici, giuridici,
“culturali”, tutti di carattere sovrannazionale, i quali ci hanno
imposto o suggerito riforme distruttrici di ben efficaci e giusti
assetti d’interesse che avevamo ereditato dalla nostra storia e che
forse dovevano soltanto essere ritoccati con pazienza, sperimentando le
riforme, dapprima in singole città o Università o Scuole, o settori per
verificarne la bontà.
9. L’Italia deve tornare ad essere una nazione pacifica.
Nell’ultimo quindicennio, l’Italia ha partecipato a innumerevoli guerre
di aggressione, sempre come ruota di scorta degli Stati Uniti, ora sotto
l’ombrello della NATO ora sotto quello dell’ONU. Quelle guerre di
aggressione hanno ribaltato giudizi di campi di battaglia; hanno
comportato il bombardamento di popoli ed eserciti senza talvolta
concedere agli avversari la possibilità di colpire gli aerei della
coalizione degli aggressori e senza far seguire alla guerra aerea una
parvenza di guerra terrestre; hanno ricondotto all’età della pietra
stati che avevano sviluppato sistemi scolastici, sanitari e
imprenditoriali di buon livello; sono state condotte servendosi di
milizie locali razziste di stupratori e di sodomizzatori; hanno
disintegrato stati unitari e hanno minato l’unità nazionale di altri.
Nessuna di quelle guerre, alle quali comunque non avremmo dovuto
partecipare, è stata condotta nell’interesse degli italiani: della
maggioranza o di una minoranza qualificata. Addirittura l’ultima, quella
contro la Libia, è stata condotta contro i nostri interessi e
nell’interesse di alcuni alleati. Nemmeno in questa occasione, la classe
dirigente italiana ha avuto il coraggio di non accodarsi alla Francia e
all'Inghilterra (nella guerra contro la Libia gli Stati Uniti hanno
effettivamente mantenuto un profilo basso) e di rimanere neutrale, come
invece ha fatto la Germania.
Quella parte dei cittadini italiani, fortunatamente ampia, che non è
stata completamente ridotta alla condizione di video-consumatori di
falsità mediatiche prova vergogna. E vergogna, ne siamo certi, provano
anche i nostri migliori soldati, che non meritano di far parte di
coalizioni con criminali razzisti e vorrebbero svolgere soltanto il
compito di difendere la patria da aggressioni straniere e da tentativi
armati di secessione.
Svincolarci dalla sudditanza politica, giuridica e “culturale” nei
confronti degli Stati Uniti, ormai diretti da una classe dirigente di
miliardari criminali, guerrafondai e pericolosissimi, è un imperativo
morale, prima che politico.
10. La deriva della nazione
La deriva della nazione ha trovato compimento, per un verso, nella
guerra di aggressione contro la Libia, proprio perché, a tacer d’ogni
altro profilo, si è trattato (caso più unico che raro) di una guerra
condotta contro gli interessi degli italiani e a favore di interessi
stranieri; per altro verso nella crisi del debito pubblico, dovuta –
secondo i media ufficiali che da anni stupidiscono gli italiani – alla
“sfiducia dei mercati” nei confronti dell’Italia e dell’ex Presidente
del consiglio in particolare, e in realtà dipendente: da politiche che
hanno preferito allocare sui mercati, anziché presso i risparmiatori
italiani, il debito pubblico; che hanno voluto sopprimere la moneta
nazionale a favore del corso forzoso di una moneta cosiddetta “comune” e
che invece non appartiene a nessun popolo; che hanno consegnato
l’immenso risparmio degli italiani ai grandi intermediari finanziari,
imponendo al tempo stesso all’Italia di partecipare alla gara tra stati
per attrarre capitali stranieri; che, hanno voluto concedere la massima
autonomia alla BCE (e purtroppo già prima dell'ultimo ventennio alla
Banca d'Italia).
11. Il commissariamento politico dell’Italia e la seconda morte della Patria
L’esito di oltre venti anni di politiche globaliste, di apertura ai
mercati internazionali e di cancellazione dei confini nazionali è stato
catastrofico e si è materializzato in un vero e proprio governo di
occupazione o, se si preferisce, di semplice commissariamento.
La composizione dell’attuale governo non lascia adito a dubbi. Il
Presidente del consiglio è il proconsole della UE, dove ha svolto un
ruolo di vertice e ultra-politico per dieci anni. Altro che tecnico!
Come commissario europeo, Monti è stato indipendente dallo Stato
Italiano (lo imponevano i trattati europei). Ma è stato pur sempre per
dieci anni membro dell’organo di governo dell’Unione europea.
Istituzionalmente, nel rispetto dei Trattati europei, ha sempre agito
nell’interesse della comunità europea, in piena indipendenza dallo stato
italiano. L'ammiraglio Giampaolo Di Paola, ministro della difesa, è
l'uomo della Nato nel governo italiano. Era ammiraglio presso la NATO in
Libia. Il ministro degli esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, è l'uomo
di Israele e degli Stati Uniti nel governo italiano. E’ stato
ambasciatore presso Israele e successivamente presso gli Stati Uniti,
ove è restato in carica fino al momento di in cui è diventato Ministro
degli esteri E’ stato anche consigliere politico della rappresentanza
italiana presso la NATO. Non c'è ente sovrannazionale che non sia
rappresentato nel nostro governo: persino l'OCSE è rappresentata da un
sottosegretario che proviene dall'Invalsi, l'ente che da anni perora la
causa dei test asseritamente volti ad accertare le capacità intellettive
e culturali degli italiani e in realtà a stupidirli.
E’ la seconda morte della Patria.
12. La depressione economica
Nessuna fiducia può essere riposta nel Governo Monti, appoggiato dalla
sciagurata classe dirigente di centrodestra e di centrosinistra. Se
qualche provvedimento, tra i tantissimi ingiusti e demagogici, può
apparire giusto, è certo che il Governo Monti teorizza e persegue una
politica economica che condurrà l’Italia in depressione.
Il Governo Monti, aumentando le imposte e tagliando al contempo le
spese, diminuirà la domanda pubblica. La moneta comune, tenacemente e
assurdamente difesa dal Governo, continuerà a cagionare scarsità di
domanda estera e squilibri nella bilancia dei pagamenti, i quali a loro
volta impediranno di ridurre lo spread a livelli insignificanti e
continueranno a rendere costoso, per lo Stato Italiano, il reperimento
di prestiti, rispetto ad altri stati europei.
Le banche, che sono decotte, diminuiranno i prestiti alla produzione e
al consumo, cagionando un'ulteriore diminuzione dell’offerta e della
domanda.
La manovra economica non ha spostato ricchezza dai ceti ricchi ai ceti
poveri e medi, i quali hanno maggiore propensione al consumo e pertanto
nemmeno per questo verso si avrà un aumento della domanda.
Né vi è ragione di credere che, nella attuale congiuntura, si
verificherà un aumento degli investimenti diretti esteri in Italia,
volti a costituire nuove imprese. Gli investimenti volti ad acquistare
imprese italiane, invece, se in parte si verificheranno, saranno una
sciagura, perché accanto a momentanei e relativi benefici, comporteranno
un indebolimento e un impoverimento del sistema produttivo nazionale.
La logica non lascia scampo. Nei prossimi due anni l’Italia vedrà
scendere sensibilmente il prodotto interno lordo. Le liberalizzazioni,
nelle quali ripone fiducia il fanatico Monti, produrranno soltanto
spostamenti di ricchezza, in pochi casi in una direzione giusta, negli
altri, in direzione sbagliata. In nessun modo renderanno più produttivo
il sistema economico italiano.
Fonte: www.appelloalpopolo.it
Links:
http://www.appelloalpopolo.it/?p=6272
http://www.appelloalpopolo.it/?p=6278
http://www.appelloalpopolo.it/?p=6291
http://www.appelloalpopolo.it/?p=6301
http://www.appelloalpopolo.it/?p=6311
23.03.2012 e 26.3.2012